“Nello stabilimento piacentino siamo incagliati su una pratica di Autorizzazione unica ambientale da due anni e non riusciamo a realizzare un impianto di biogas in grado di valorizzare gli scarti aziendali e permetterci di declinare al massimo, secondo le nostre attuali potenzialità, l’economia circolare, così da raggiungere quasi l’autosufficienza energetica. In Ungheria, dove abbiamo un insediamento produttivo, abbiamo ricevuto la visita del ministro dell’Agricoltura, il ministro degli Esteri ci ha incontrato al Consolato ungherese di Milano e, recente notizia, hanno accolto nell’arco di pochi mesi il nostro progetto di investimento, finanziandolo a fondo perduto per il 50%, dichiarando che in base alle loro informazioni siamo un’azienda seria e che sostiene l’economia del territorio”.
A sentire le parole di Enzo Panizzi, titolare di Valcolatte, verrebbe da completare la frase con un bel “trova le differenze”. Ma il primo a non voler creare polemiche è lui, che nell’impresa ci mette il cuore e un impegno encomiabile.
“Ho messo a confronto i due scenari non certo per endorsement politico o per volontà di denigrare le nostre istituzioni – mette immediatamente in chiaro – ma semplicemente per fare luce su quanto sia difficile, a volte, fare impresa in Italia”.
Rispetto alle sedi di Valcolatte all’estero, una operativa in Ungheria, una distributiva in Spagna con quattro piattaforme a Madrid, Barcellona, Siviglia e Malaga, una operativa a Tirana (Albania), l’Italia è quella che complica maggiormente i passaggi burocratici.
“Abbiamo voglia di fare come impresa e solo per l’Italia abbiamo un piano di investimenti di 20 milioni di euro in cinque anni, ma gli oneri della burocrazia fra tempi infiniti e costi irragionevoli ci sfinisce. Siamo annichiliti”, aggiunge Panizzi.
Per converso, “le opportunità messe a disposizione delle aziende attraverso il piano Industria 4.0 sono un’occasione da cogliere al volo, così come il nuovo approccio dell’Ice a sostegno delle missioni all’estero lo sentiamo più vicino alle esigenze delle imprese”.
Quanto esportate?
L’obiettivo è esportare fuori dall’Europa: Medio Oriente e Far East
“Oltre il 40% della nostra produzione e siamo presenti in tutta l’Unione Europea, in Svizzera, nel Regno Unito, in Serbia e Albania, dove appunto abbiamo una sede operativa. L’obiettivo è esportare fuori dall’Europa, nel Medio Oriente e nel Far East, dove abbiamo cominciato a vendere prodotti Iqf (Individually Quick Frozen, ndr) o congelati. Siamo presenti anche in Arabia Saudita, dove l’attenzione per la qualità di alto livello è ricercata e riconosciuta. Ultimamente abbiamo iniziato una collaborazione interessante in Canada e siamo vicini all’accreditamento negli Usa”.
La pizza è il traino dell’azienda, avendo voi una significativa produzione di mozzarella?
“Sì, la pizza è assolutamente il traino dell’azienda. Dalle statistiche che riceviamo siamo il secondo produttore in Italia di mozzarella per pizza. Nel 2019 ne abbiamo prodotte 12mila tonnellate”.
Uno dei vostri prodotti più conosciuti è la Riccotta, con due “c”. Come avete scelto il nome?
“Volevamo sfatare la errata concezione che la ricotta fosse un prodotto povero, consigliato dai dietologi e, in ultima analisi, punitivo. Noi vogliamo dire ai consumatori che invece è un prodotto equilibrato, in grado di dare soddisfazione, appunto ricco. Da qui il nome Riccotta”.
Lavorate 100% latte italiano per i vostri prodotti freschi. C’è differenza rispetto alla materia prima di altra provenienza?
Il latte italiano dà una percezione organolettica superiore
“Una premessa. Come politica aziendale sul nostro marchio principale, che è Caseificio Valcolatte, usiamo solo latte italiano. Ma per altri marchi lavoriamo anche latte estero. Non abbiamo pregiudizi e utilizziamo tutta la nostra esperienza per realizzare ottimi prodotti. Detto questo, sarà forse per il sistema di raccolta, i trasporti più rapidi, ma a livello di gusto, aroma, colorazione, il latte italiano dà risultati superiori. La percezione organolettica è differente, ad esempio, nel caso della mozzarella: con il latte italiano il prodotto è perfettamente bianco, con la materia prima straniera non è così. Ma sono entrambi ottimi prodotti”.
Avete risentito, avendo prodotti freschi, dell’effetto Covid?
“Purtroppo sì. Eravamo chiaramente orientati verso l’Horeca, con pizzerie e ristoranti fra i canali privilegiati, ma anche grossisti e distributori a loro volta concentrati sul food service. Il fatturato ottenuto dalla vendita in Horeca è diminuito, ma ci siamo riposizionati”.
Come?
“Abbiamo potenziato il dialogo con la grande distribuzione e la distribuzione organizzata e abbiamo lavorato per conquistare nuovi mercati all’estero, sapendo che non è immediato creare rapporti commerciali strutturati nell’anno della pandemia, ma vogliamo, come le dicevo, ampliare le vendite al di fuori dell’Europa”.
Partecipate a molte fiere di settore. Come pensa che evolverà il settore, dopo la pandemia?
Le fiere sono strategiche per farsi conoscere dalla nuova clientela
“Per le nostre dimensioni aziendali riteniamo che le fiere siano ancora strategiche per farci conoscere dalla nuova clientela. Non basterà più, tuttavia, solo l’Europa e servirà, comunque, un passo diverso per creare opportunità di crescita e di analisi dei mercati e delle nuove tendenze di consumo. Per partecipare a fiere in altri continenti, però, sarà fondamentale l’aiuto di Ice”.
La cooperazione ha rilanciato il progetto di un polverizzatore di latte in Lombardia. Cosa ne pensa?
“Fortunatamente non sono io che decido, ma detta così non credo sia un’operazione vincente, perché la polvere ci mette in condizione di competere con altri paesi nel mondo che hanno costi di produzione inferiori e, spesso, anche vantaggi logistici. Le esportazioni di prodotti dairy italiani continuano ad aumentare e non abbiamo raggiunto l’autosufficienza nella produzione di latte”.
Quale potrebbe essere una soluzione alternativa?
“So che è difficile, ma servirebbe appunto una spirito diverso a avviare una collaborazione costruttiva fra imprese che realizzano formaggi Dop e altre che producono prodotti non Dop, così da trovare un equilibrio che porti alla crescita e alla valorizzazione equilibrata del latte fra tutte le filiere”.